L’arte di amare

È l’amore un’arte? Allora richiede sforzo e saggezza.

Erich Fromm

La scrittura minuta e fitta si sussegue per pagine e pagine zeppe di appunti e riflessioni. Inchiostro nero per le considerazioni ordinarie, rosso per le parole da scolpire e non scordare mai più. Uno sforzo imponente per un obiettivo ambizioso: comprendere l’amore.

Era il 1993, avevo diciannove anni e stilavo decaloghi di comportamento per ridurre le distanze fra me e il mondo, ma anche fra me e il ragazzo che mi aveva appena lasciata.

Nel sottotesto di quelle parole era presente un dolore che sembrava espandersi ogni minuto, simile a un’apnea che si trasforma in asfissia. La mancanza che diventa vuoto perché tutto intorno non c’è struttura, non c’è forza, non c’è indipendenza di cuore e di spirito.

Sulle macerie lasciate da quell’assenza potevo solo cercare di ricostruire la mia vita e lo feci partendo da un dubbio che mi si era conficcato come un punteruolo nella mente: sapevo davvero amare?

Quel sentimento che ero convinta di provare, così totalizzante e immenso, si stava rivelando piuttosto una mistura di bisogni e contraddizioni, di rancori e solitudine.

Un dono a me stessa

Il primo passo verso il cambiamento fu un regalo che feci a me stessa: il saggio L’arte di amare di Erich Fromm, con tanto di dedica da parte della giovane poco più che adolescente alla donna che volevo diventare.

Ai margini delle pagine, intaccati dall’ingiallimento del tempo, ci sono ancora i “nota bene” appuntati a matita, e le parti più significative del testo sono sottolineate. Da quello studio sono nate registrazioni e quaderni di appunti; un lavoro certosino, appassionato, figlio del bisogno struggente di comprendere, di riflettere sui sentimenti, di prendere coscienza del dolore e riemergere.

La parte più difficile è stata mettere in pratica quanto avevo appreso, ma non appena provai ad aprirmi al mondo senza cercare stampelle a cui far reggere la mia fragilità, notai piccoli ma tangibili cambiamenti su cui ho potuto costruire tutta la mia esistenza.

Si può quindi imparare ad amare semplicemente studiando un testo? La risposta non può essere affermativa, ça va sans dire. Però non è accettabile neppure la convinzione comune che l’amore “accada” come un fatto fortuito e che non ci sia nulla da imparare al riguardo.

«Amare qualcuno – dice Fromm – non è solo un forte sentimento. È una scelta, una promessa, un impegno. Se l’amore fosse solo una sensazione, non vi sarebbero i presupposti per un amore duraturo. Una sensazione viene e va. Come posso sapere che durerà per sempre, se non sono cosciente e responsabile della mia scelta?».1 Di fronte a un’affermazione di questa portata è facile immaginare alcune obiezioni. Ad esempio che non si può scegliere di amare qualcuno, e senz’altro c’è un fondo di verità in questo. Non possiamo imporci di provare dei sentimenti verso una persona specifica, e infatti il pensiero di Fromm non è così banale. Lo psicanalista si riferisce all’atteggiamento degli individui specificando che «l’amore non è soltanto una relazione con una particolare persona: è un’attitudine, un orientamento di carattere che determina i rapporti di una persona col mondo, non verso un “oggetto d’amore”».2 Va da sé che tale attitudine si riflette comunque in tutte le relazioni, comprese quelle di coppia.

Dalla teoria alla pratica

Tra i ricordi dei giorni in cui la mia giovane mente era concentrata su tali questioni ne emerge uno in particolare, il primo tentativo di accantonare un desiderio (una cosa banale, in verità, ma nata dall’egoismo) per andare incontro all’esigenza, opposta alla mia, di un’altra persona. Si trattava di mio padre. Con mio grande stupore, di fronte al mio atteggiamento aperto, pronto a donare qualcosa senza pretendere nulla in cambio, mio padre fece lo stesso con me. Io esaudii il mio desiderio, ma la conquista più grande fu comprendere quanta ricchezza vi fosse nell’essere disponibili verso gli altri. Può sembrare retorica? Non lo era per me, anima in crescita, sofferente e insofferente, che nelle pagine di un libro (in verità, di molti libri) cercava risposte e soluzioni.

C’è un passaggio, nell’Arte di amare, che credo di aver ripetuto a me stessa come un mantra: «In contrasto con l’unione simbiotica, l’amore maturo è unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità. L’amore è un potere attivo dell’uomo; un potere che annulla le pareti che lo separano dai suoi simili, che gli fa superare il senso d’isolamento e di separazione, e tuttavia gli permette di essere se stesso e di conservare la propria integrità. Sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due».3

Basterebbe poco, dunque, per non farsi male, per non ferirsi, per non arrivare ad azioni irreparabili come spesso accade. Sulla carta può essere vero, ma attraverso quali esperienze passa la maturità affettiva? Anche questo quesito può sembrare retorico, ma in una realtà sempre più orientata al possesso di cose e persone credo che non ci siano risposte scontate. Di una cosa però Erich Fromm era certo: la capacità di amare gli altri è direttamente proporzionale alla capacità di stare da soli. «Se io sono attaccato a un’altra persona perché non sono capace di reggermi in piedi, lui o lei può essere un “salvagente”, ma il rapporto non è un rapporto d’amore. Paradossalmente, la capacità di stare soli è la condizione prima per la capacità d’amare».4 Queste parole sono, a mio avviso, il corollario della citazione precedente: se non si è in grado di tracciare da sé la propria strada, si finirà con l’attaccarsi morbosamente a qualcuno e a sentir mancare l’aria, la vita stessa, nel momento in cui tale relazione dovesse finire. Un’asfissia che ho conosciuto e che mi sono sforzata di bandire scavando dentro me stessa. Un esercizio che non è mai venuto meno, per fortuna.

Indipendenza e rispetto

L’amore si sostanzia di tante altre cose, naturalmente, ma una in particolare non può mai mancare: il rispetto. «Rispetto non è timore né terrore; esso denota, nel vero senso della parola (respicere = guardare), la capacità di vedere una persona com’è, di conoscerne la vera individualità. Rispetto significa desiderare che l’altra persona cresca e si sviluppi per quello che è. Il rispetto, perciò, esclude lo sfruttamento; voglio che la persona amata cresca e si sviluppi secondo i suoi desideri, secondo i suoi mezzi, e non allo scopo di servirmi. Se io amo questa persona, mi sento uno con lei, ma con lei così com’è, e non come dovrebbe essere per adattarsi a me. È chiaro che il rispetto è possibile solo se ho raggiunto l’indipendenza; se posso stare in piedi o camminare senza bisogno di grucce, senza dover dominare o sfruttare un’altra persona. Il rispetto esiste solo sulle basi della libertà: “l’amore è figlio della libertà” come dice una vecchia canzone francese; l’amore è figlio della libertà, mai del dominio».5

Nella negazione di questa verità assoluta possiamo trovare una miriade di drammi: dai suicidi per l’improvviso abbandono da parte del proprio “oggetto” d’amore agli omicidi (e soprattutto femminicidi) per l’incapacità di accettare la fine di una relazione. Possiamo trovarci anche situazioni meno tragiche ma comunque dolorose, come il passaggio dall’idillio ai dispetti, alle guerre in tribunale, all’impossibilità di comunicare se non per mezzo dei propri avvocati.

C’eravamo tanto amati

Mi sono sempre chiesta una cosa: perché mai si arriva a questo? Come si può dimenticare di aver amato una persona, cancellare tutto ciò che è stato, non riuscire neanche più a parlare con colui o colei che per un lasso più o meno lungo della propria vita ha rappresentato il centro di ogni pensiero?

Non ci sono risposte facili e valide per tutti, ma sono convinta che se l’indipendenza e il rispetto fossero sacri per ognuno di noi, potremmo raccontare storie più felici, anche quando finiscono.

Sembrano quasi due concetti astratti, indipendenza e rispetto. L’unico modo per renderli concreti è educare le persone a entrambi. Non per tutti c’è un Erich Fromm da leggere, scoprire, interpretare e applicare al proprio vissuto. Non in tutti nasce l’esigenza, spontanea o indotta dagli eventi, di provare a conoscere sé stessi. Eppure è tutto lì, dentro di noi, nel bene e nel male, così come è dentro di noi il desiderio di stare con gli altri, di amare ed essere amati.

In ogni caso, e questo credo valga per ciascuno e per tutti i tipi di relazione, non è mai troppo tardi per cominciare a guardarsi dentro, per provare a imparare l’arte di amare (sé stessi e gli altri) e per far sì che, qualora l’amore dovesse finire, non rimangano solo le briciole, per dirla con le parole di Vinicio Capossela, «da spartirsi e litigarsi nel setaccio della penultima ora».6

1 E. Fromm, L’arte di amare, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, p. 61.

2 Fromm, L’arte di amare, p. 53.

3 Fromm, L’arte di amare, p. 31.

4 Fromm, L’arte di amare, p. 111.

5 Fromm, L’arte di amare, p. 37.

6 Verso tratto dalla canzone Che coss’è l’amor di Vinicio Capossela.